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Giardino leucadense

Che cosa fa, quando uno fa un giardino?

Quando parliamo di giardini o paesaggio, la poetica del progetto non ha mai a che fare con una dichiarazione teorica sulle ragioni del fare o sul perché si fa una certa cosa, perché come tale è di per sé una dichiarazione difettosa in partenza.
Il guaio delle poetiche sta nel fatto che prima di costruire giardini producono solo intenzioni teoriche, dove a prevalere è sempre la finalità del soggetto sulla situazione.
Infatti, quando un artista parla della sua poetica ci tiene sempre a precisare quali sono le sue intenzioni nel produrre l’opera, come se in testa avesse già un programma predeterminato o un’idea fissa e ben confezionata.

Dichiarare una poetica come un qualcosa che scaturisce da un modello costruito in partenza, che non scaturisce quindi da una diretta esposizione al carattere atmosferico dei luoghi, è una cosa piuttosto triste o banale, perché quando le poetiche sono troppo dichiarate e precedono il prodotto artistico diventano anche piuttosto ridicole.

Quando si ha a che fare con i processi naturali le dichiarazione di poetica vanno abolite in partenza, perché di un giardino o di un paesaggio si può parlare solo nei termini di una congettura.
La poetica di un paesaggista-giardiniere è semmai una “poetica in atto”, quindi implicita o tacita, che si forma e modifica nel corso del farsi della stessa opera, anche perché la natura di un giardino è sempre legata alla configurazione instabile dei fenomeni naturali e alla manifestazione della loro potenza e la pratica che porta a realizzare un giardino è sempre soggetta a un processo combinato (di tipo stocastico), dove solo una componente è selettiva, mentre l’altra è sempre casuale o spontanea e quindi gravita di novità.
E sono proprio queste novità che in un giardino creano meraviglia e stupore!

Questo ci dice che l’opera che chiamiamo giardino non è mai l’esito esclusivo delle nostre scelte intenzionali o selettive (chiamiamole poetiche), ma è un processo continuamente regolato dall’influenza e mescolanza di diversi fattori correlati, da cui emerge quella misteriosa forza vitale che chiamiamo natura.
Se, quindi, di una qualche poetica si tratta, è una poetica indiretta e molto spesso involontaria, quindi indecisa o in parte impensata.

Al contrario immaginate uno che, carico di poetica e di modelli nella sua testa, entrando in un luogo per la prima volta vede già il giardino da farsi, perché lo immagina come un quadro da appendere sulle bianche pareti di un museo. Succede spesso, infatti, che nelle cosiddette poetiche la parte teorica o intenzionale diventi spesso prevalente rispetto a quella creativa o spontanea, che viene fuori non quando uno entra nei luoghi con idee già belle e pronte, come quelle di un mero esecutore che per montare una caldaia segue pedissequamente un libretto d’istruzioni, ma quando inavvertitamente si lascia toccare dai luoghi instaurando con essi quel campo affettivo necessario affinché quel luogo possa essere immaginato come un giardino.

Personalmente, quando mi accingo a pensare un giardino, provo quasi sempre un paradosso, perché la mia prima idea di giardino è sempre quella di non avere alcuna idea.
Spesso mi viene da pensare al giardino come a una cosa piuttosto semplice e per iniziare mi piace immaginarlo come un orto di erbe medicinali, anche perché penso spesso al giardino come a una terapia fatta di erbe medicamentose, un “medicamentum simplex” dicevano i latini, che erano poi quelle erbe che i frati minori coltivavano negli orti dei loro monasteri per scopi curativi.

La mia poetica del giardino è quindi una poetica indiretta e senza il chiaro intento di lusingare un ipotetico osservatore; semmai questo accade solo dopo e si esprime sempre nel fatto di voler sottolineare questa sua virtù medicamentosa, perché un giardino, prima ancora di avere una funzione prevalentemente estetica o ecologica ne ha una più prettamente terapeutica o curativa, soprattutto verso i principali malanni del nostro tempo..
Anche per questo, quando mi capita di parlare di giardini, mi viene spesso da parafrasare un passo di Cavazzoni, che trovate nel libro “Il limbo delle fantasticazioni”, per rispondere sommessamente a una domanda apparentemente banale:
<<Che cosa fa uno, quando si dice che fa un giardino?>> …
<<Beh, fa sempre delle cose un pò strampalate, perché in questo campo se uno impara il mestiere, allora meglio che smetta>>!