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Il mito dell’azione

Con l’epidemia che ha portato al disseccamento degli ulivi, nel Salento è di grande attualità il dibattito sulle possibili modalità per ricostruire il paesaggio, senza considerare però che il paesaggio è solo la manifestazione sensibile di una certa situazione e che ciò che va effettivamente ricostruito è in realtà il territorio. Infatti, dopo la devastazione delle campagne, ciò che rimane è pur sempre un paesaggio: un paesaggio di rovine!

Il dibattito è talmente ampio e continuamente ripetuto che da più di un decennio non si fa altro che parlare di paesaggio.
In questi casi, prendendo in prestito le parole di A. Berque*, sarebbe interessante far notare l’evidente contrasto tra l’agire delle generazioni passate, che hanno prodotto paesaggi notevoli (senza elaborare alcuna teoria sul paesaggio), e quello delle generazioni contemporanee che, pur parlando continuamente di paesaggio, lo hanno letteralmente distrutto.

In questi dibattiti più che dare risposte sarebbe opportuno chiedersi quale piega stia prendendo questo territorio di provincia.
Per farlo è però necessario verificare lo stato dei concetti, che sono poi gli unici strumenti operativi che abbiamo a disposizione per correggere le situazioni o adattarsi ad esse.
Si tratta di concetti che nel migliore dei modi non fanno altro che declinare, sempre e comunque, la preminenza del soggetto sulle situazioni, evidenziando quello che qui viene definito il “mito dell’azione”.

Pensare le cose, anche quando non si tratta solo di cose, ma di vite, di processi, di nature, significa prima di tutto pensare al fatto che ciò che chiamiamo “reale” non è una cosa o una sostanza, dal momento che si effettua e si rivela ai nostri sensi come la risultante di una situazione che continuamente evolve e si trasforma.
Ciò significa che separare la situazione dalla sua evoluzione, come due momenti differenti, non ci aiuta a pensare che le cose evolvono in virtù del fatto che si costituiscono e tutto ciò accade in quel “mentre” che non designa propriamente un tempo, ma un “frattempo”, cioè una curiosa simultaneità tra due avvenimenti tra loro inseparabili.

Pertanto, per parlare di paesaggio o territorio è necessario disfare nei concetti quelle pieghe già segnate e fissate nel nostro modo di pensare e agire, per aprire una sottile fessurazione d’insieme da esplorare.
Così, quando pensiamo il disseccamento degli ulivi come un evento isolato e improvviso, forse sarebbe utile chiedersi se un evento sia effettivamente una ‘cosa’ che si ritaglia un suo tempo o se, invece, non sia altro che l’affioramento di un fatto che non si stacca mai del tutto dal corso ininterrotto dei processi; anche perché ogni evento, quale esso sia, è sempre implicato nella struttura del contesto che lo genera come effetto.

Allora, in questi casi, il vero problema è capire “come fare” per trarci d’impaccio dalle difficoltà di pensare altrimenti, aprendo una via da percorrere solo con i piedi ben piantati per terra.
Questo aspetto pone il problema di come pensare l’efficacia delle azioni**, un aspetto che ci dovrebbe portare a riflettere non solo sul rapporto tra teoria e pratica, dove la seconda tradirà sempre la prima, poiché sussisterà sempre uno scarto tra il modello o il piano che utilizziamo per agire e quello che perveniamo a realizzare; ma sarà necessario riflettere anche e soprattutto su quella forma di intelligenza, che fa leva sull’evoluzione delle cose e che, in mancanza di altri termini, chiameremo strategica***.

Questo aspetto assume una certa rilevanza dal momento che siamo abituati a pensare le trasformazioni territoriali facendo largo uso di modelli ideali, che applichiamo attraverso piani/programmi o progetti, dove, nel migliore dei casi, valutiamo la coerenza interna tra mezzi impiegati e scopi da raggiungere, secondo gli obiettivi prefissati.
L’idea, cosi concepita, viene proiettata sulla realtà attraverso una serie di azioni che, forzando i fattori portanti di una situazione, creano sempre un’effrazione e, solo dopo, in funzione del grado di forzatura, valutiamo il livello di sostenibilità ambientale, sociale ed economica.

Così, in questo modo di procedere, da decenni assistiamo a una vera e propria devastazione dei luoghi.
Pensate, come esempio, ai piani urbanistici comunali o al piano di eradicazione del batterio nel diseccamento degli ulivi.
Nel primo caso, le trasformazioni non tengono quasi mai conto delle condizioni di contesto e dei processi in atto, poiché  unico scopo è adattare le strutture di lunga durata alle funzioni insediative ed economiche richieste, basate su semplici proiezioni demografiche, senza tener conto delle preesistente.
Mentre, nel caso del batterio, il parodosso è ancora maggiore perché lo scopo è quello di annientare un “nemico invisibile” attraverso l’abbattimento del suo ospite: l’albero.

Sembra piuttosto evidente, quindi, che ciò che non riusciamo proprio a pensare nel disseccamento degli ulivi è la sottile differenza tra azione e trasformazione: quella innescata dall’epidemia.
L’azione, in questi casi, interviene in un dato momento ed ha un’incidenza sempre puntuale: è quindi locale e momentanea ed è sempre in ritardo rispetto alla trasformazione in atto.
La trasformazione, invece, non solo non è locale o puntuale, ma non è neppure localizzabile, se non dopo aver prodotto i suoi effetti, poiché il suo dispiegarsi è invisibile e sotterraneo. Il suo sviluppo, a differenza dell’azione, è quindi diffuso e continuo e opera ovunque nello stesso tempo passando sotto i nostri occhi inavvertitamente.
Così, l’azione è rumorosa e spettacolare, mentre la trasformazione è sempre silenziosa e discreta: solo il suo effetto sarà sonoro e pervasivo!

Da queste considerazioni è qundi facile notare l’emergere di un vero e proprio paradosso:
infatti, se l’obiettivo dell’azione diretta e frontale, con l’assurdo dispiegamento di forze necessarie a condurre un’ipotetica guerra, è quello di annientare un nemico invisibile; quello di un’azione indiretta sarebbe semplicemente basata sulla sua destrutturazione; il che vuol dire che l’efficacia dell’azione non sta nell’abbattere l’albero che ospita il batterio, ma agire sulle sue alleanze, ovvero sul vettore e sulle condizioni che ne consentono lo sviluppo, dove l’abbandono delle terre coltivate ha svolto e svolge un ruolo determinante o quantomeno significativo.

Questo aspetto ci dice in definitiva che il modello che utilizziamo per agire segna solo l’orizzonte dello sguardo e l’ideale, ritirato nel suo cielo, resta sempre inaccessibile.

 

Note:
*A. Berque, Pensare il paesaggio, Mimesis edizioni – Collana Kosmos n. 39, 2022.
**Per il concetto di efficacia si rimanda a: F. Jullien, Trattato dell’efficacia, Einaudi, 1998.
***Per il concetto di strategia applicato alla guerra, si rinvia a un piccolo manuale, ritenuto il più antico della storia (VI secolo a.C.): Sun Tsu, L’arte della guerra, Feltrinelli 2013.